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PADOVASOFTCITY: TRA INNOVAZIONE E INTEGRAZIONE

By 24 Aprile 2017 No Comments

CatturaTra le implicazioni del concetto di “società liquida” – che si deve al sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman – vi è certo il cambiamento continuo e incalzante. I mutamenti repentini e imprevedibili a cui stiamo assistendo costituiscono una sfida all’idea stessa di innovazione, che diventa sempre più difficile rappresentare. Nonostante ciò, mi propongo di offrire alcuni spunti utili a una successiva discussione sul futuro di Padova.

Fare ordine tra le parole innovazione e ricerca

Nel nostro Paese si continua a fare confusione tra cosa si debba intendere per ricerca e cosa per innovazione. All’estero la ricerca – ne sono un esempio le maggiori università americane – è sostenuta prevalentemente da fondi pubblici, mentre l’innovazione viene fatta dalle imprese. Secondo recenti studi, sono ben 83 i centri di innovazione/ricerca in Veneto sostenuti da sovvenzioni pubbliche da parte di Camere di Commercio, Regione, Comuni. A fronte della poca disponibilità di risorse, appare evidente non soltanto lo spreco ma anche una dannosa sovrapposizione di ruoli!

In Germania, la decisione di centralizzare i centri di ricerca applicata – ne sono un esempio i famosi Fraunhofer – ha prodotto ottimi risultati, rispetto alla loro capacità di competere a livello globale. Alcuni tra questi questi centri di eccellenza tedeschi si stanno giocando la loro partita, gareggiando con realtà statunitensi come Harvard, il MIT, UCLA. Lo scenario veneto si caratterizza invece per una assurda e poco lungimirante parcellizzazione. Mi limito a citare il caso del ‘Parco Galileo’ a Padova, dove la Camera di Commercio rischia di dover investire altri 500 mila euro di risorse pubbliche, per evitare che il bilancio chiuda in rosso per il terzo anno consecutivo.

D’altro canto, per rimanere all’esempio locale del Galileo, è giusto pure sottolineare che sia la Scuola di Design sia il MaTech (il centro ricerca materiali) costituiscono delle eccellenze: infatti, si sostengono a mercato. Allo stesso modo, rimanendo a Padova, vorrei mettere in evidenza l’esperienza positiva del ‘Talent Garden’, un’iniziativa realizzata senza un euro di denaro pubblico. E’ uno spazio di co-working di talenti digitali, uno strumento per aggregare e connettere le persone tra loro. Al momento ospita ben 47 scrivanie: ossia giovani che, senza nessuna sovvenzione, fanno impresa quotidianamente, sviluppando innovazione per se stessi e per tantissime imprese manifatturiere. È qui che crescono quelli che un tempo erano i reparti ricerca e sviluppo delle imprese. Ecco un esempio virtuoso del territorio che aiuta a sviluppare competenze digitali, nuova impresa, nuova occupazione giovanile qualificata.

Il primo spunto è dunque l’importanza di distinguere tra ricerca ed innovazione. Il mio auspicio è che a Padova si creino grandi centri di ricerca di rilievo mondiale, come già accade nella sanità, ricerca sostenuta fortemente dal settore pubblico. L’innovazione è invece il terreno d’elezione delle imprese: nelle fabbriche o nei co-working o dove si vuole. Nella società liquida e connessa in rete, non importa il dove.
Start up, dal racconto a piccole imprese innovative

Tutti ormai parlano di start up: anche i personaggi politici hanno scoperto questo termine che fino qualche anno fa non esisteva nel discorso pubblico. Spesso il termine viene impiegato a sproposito, anche da parte della stampa, per raccontare storie inverosimili oppure per descrivere realtà che in breve tempo chiudono e scompaiono. Sull’argomento il cosiddetto storytelling, alla ricerca del “fenomeno”, è piuttosto rigoglioso.

Per questo motivo auspico vi sia un po’ meno racconto mediatico sulle startup e fioriscano invece piccole imprese innovative che si affianchino al settore manifatturiero. Oggi esiste una sovrabbondanza di iniziative – come Contest, Hackaton e diversi altri festival riguardo all’innovazione – che rischiano di rimanere fini a se stesse. In un certo senso tutte le nostre imprese, compresa la mia, sono state start up quando hanno aperto i battenti. Nel panorama odierno, la start up ha senso se viene concepita come un moderno reparto ricerca & sviluppo di un’impresa che vada a caccia di idee innovative. Questa è la vera sfida, in un mercato che cambia molto più rapidamente rispetto anche solo a due anni fa.

Occorre finalmente prendere sul serio i servizi che possono offrire i moderni incubatori d’impresa (business incubator). I giovani hanno bisogno di essere affiancati da una persona (il c.d. mentoring) con maggiore esperienza sia per la parte organizzativa e contabile della loro impresa, sia per il marketing e lo sviluppo di relazioni esterne significative. Questo è l’affiancamento che serve: un accompagnamento alla crescita della piccola impresa innovativa. Solo successivamente si potrà parlare di exit o di club deal, ovvero del finanziamento di rischio.

Al netto di quanto fin qui sottolineato, ritengo comunque importante che si parli il più possibile di start up, dato che l’Italia non è certamente all’avanguardia nel confronto con altri Paesi industrializzati. Se impostato nel modo corretto prima indicato, persino lo storytelling aiuta l’alfabetizzazione digitale!

Impresa: la sfida della ‘Fabbrica 4.0
In questo periodo storico è in corso la quarta rivoluzione industriale: la prima ha riguardato l’energia idroelettrica nel Settecento; la seconda fu caratterizzata dall’energia elettrica e dalla produzione di massa, alla fine dell’Ottocento; la terza è stata quella dell’automazione, dell’information technology e dell’elettronica a fine del Novecento. Ciò che caratterizza la quarta rivoluzione, è la sharing economy, nonché i sistemi cyber-physical e, più in generale, il concetto di information network.

Pertanto, la ‘Fabbrica 4.0’ non è un termine alla moda, ma ci accompagnerà in questo cambio epocale del sistema industriale europeo fino al 2030, come sovente dice Alberto Bombassei. Finalmente, pur con tutti i limiti e sette anni dopo la Germania, ora esiste un piano-Paese per le fabbriche 4.0 in Italia. Qualche mese fa l’Unione europea ha stanziato per i prossimi sei anni 50 miliardi di euro, per un piano che è la più grande sfida che si pone il sistema produttivo del vecchio continente. Ma cos’è in sostanza la Fabbrica 4.0? Per comprenderlo, occorre partire da un dato: l’UCIMU, ossia l’associazione costruttori macchine utensili aderente a Confindustria, ha riscontrato che prima della crisi gli imprenditori sostituivano i macchinari ogni 10-12 anni, mentre ora ciò avviene ogni 15-22 anni. Questo significa non soltanto che il parco macchine delle imprese italiane è nella sostanza vecchio e che alcuni colleghi del manifatturiero e del metalmeccanico hanno ancora una mentalità del secolo scorso, ma che soprattutto vi è scarsa attitudine a integrare i servizi innovativi e tecnologici con il manifatturiero. Occorre tener presente che mentre nel 2008, all’inizio della crisi, in Italia il manifatturiero produceva il 20% del PIL, questo valore ora è sceso al 15%. L’Unione europea lancia una sfida decisiva, per noi e per i nostri figli: raggiungere nuovamente la quota del 20% del PIL entro il 2020. In altri termini, c’è bisogno in questo Paese di un forte settore manifatturiero, innovato e competitivo, che ci traini tutti!

Ma di cosa è fatta la Fabbrica 4.0?
La vera sfida della c.d. digital transformation, oggi si gioca sulla re-ingegnerizzazione dei processi produttivi. Per saperne di più, siamo stati in Germania per osservare cosa fanno i primi della classe in tema di Fabbrica 4.0. E ci siamo anche chiesti cosa possono fare le nostre imprese a Padova, nel cuore del nordest, nel cuore delle piccole medie imprese (PMI) che hanno trainato l’export italiano negli ultimi vent’anni. A questo interrogativo, i tedeschi ci hanno fornito tre risposte per molti versi sorprendenti:

  1. Oggi non basta più la sola information technology per gestire i processi aziendali, come si pensava alla fine del Novecento. Non a caso si parla di sistemi cyber-physical (CPS) – ossia uno stretto connubio tra sistemi informatici e sistemi fisici, compresa la produzione manifatturiera – o di computer integrated manifacturing. Questo tipo di fabbrica va oltre la information technology o l’automazione dei processi: è un approccio nuovo alla produzione che integra le diverse fasi, dallo sviluppo, alla produzione sino al marketing. Il valore aggiunto è che ogni singolo prodotto è allora personalizzabile, ossia adeguabile in tempo reale alle esigenze del cliente, tracciabile dalla materia prima alla consegna.
  2. Ne consegue che la parola d’ordine in fabbrica è la flessibilità! In un contesto in cui il mercato fa il prodotto, ci si chiede dunque qual è l’elemento più flessibile in fabbrica. Ebbene, al centro della Fabbrica 4.0 c’è l’uomo: come sensore, decisore, attuatore.
  3. Si tratta di un lavoratore diverso rispetto al passato: un operaio o un impiegato con abilità (skill) più elevate. È significativo che un’azienda come la Mercedes nei propri stabilimenti abbia recentemente eliminato alcune linee di robotica per sostituirle con gli uomini.

 

Ricapitoliamo: tre punti chiave!
Nel disegno della città di oggi e di domani, che innova e produce, ho individuato tre elementi essenziali:

  1. i luoghi dell’innovazione devono essere pochi, aggregati e riconoscibili.
  2. le start up non crescono con chiacchere vuote e discorsi fumosi (si potrebbe dire: “meno fuffa”), quanto piuttosto con il mentoring ed investimenti ponderati.
  3. occorre cogliere la sfida strategica della trasformazione digitale del sistema manifatturiero europeo: gli aspetti chiave sono le fabbriche 4.0, i sistemi di produzione cyber-fisici, ma anche la centralità dell’uomo e lo sviluppo di nuove capacità (skill).

Soft City: la smart city delle imprese padovane, una delle possibili risposte
Una delle possibili risposte, oggi, nel nostro territorio, alle sfide sin qui delineate si chiama Padova Soft City, la smart city delle imprese padovane. A Padova abbiamo elaborato un progetto insieme a colleghi imprenditori di tutte le categorie economiche e a docenti universitari. Abbiamo suddiviso la città in tre zone:

  1. La parte centrale, la dorsale culturale, dalla Stazione fino a Prato della Valle: la ‘cultural city’, la città della cultura, dove si trovano le rotte dei turisti e del commercio.
  2. La ‘living city’, dove vive la maggior parte dei padovani, cioè i quartieri residenziali e delle periferie, spesso dimenticate.
  3. abbiamo chiamato la terza zona, ‘soft city’, che si estende più o meno dalla stazione ferroviaria alla Stanga e quindi fino al sud della zona industriale. In quest’area ci sono più di 3500 aziende dei servizi innovativi e tecnologici: da quelle di grandi dimensioni (Infocert, IBM, Cerved, Tim, Vodafone, Poste, Corvallis, la stessa Università), a quelle medie e più piccole come le nostre.

Va tenuto conto che, a partire dagli anni Settanta, Padova è via via diventata la capitale del cosiddetto terziario innovativo italiano. Qui giunsero marchi del calibro di Digital, IBM, Xerox, Siemens, Cerved, Necsy. Agli inizi degli anni Ottanta, con il boom delle emittenti private locali, si sono concentrate a Padova quasi tutte le principali radio e televisioni. La fine degli anni Novanta è contrassegnata invece dall’arrivo delle principali compagnie telefoniche.

Se la sfida della competitività è la capacità di essere attrattivi, sono convinto che Padova lo sia, e lo possa essere ancora, anche se non so per quanto tempo. La nostra sensazione, corroborata dai dati raccolti, è che negli ultimi tre anni abbiamo perso competitività rispetto a Milano. Ma non si tratta soltanto degli effetti dell’Expo: Milano ha innestato un’altra marcia e assorbe tutto. Noi imprenditori ci stiamo battendo per difendere ancora questo territorio che, temiamo, altrimenti si spopolerà, prima di aziende, poi di persone.

Oggi cosa può offrire la città? Su cosa può contare Padova per essere attrattiva? Anzitutto, il serbatoio rappresentato da un’illustre Università, con 65.000 studenti e 24.000 docenti; un centro storico fantastico, a soli due km dall’area della c.d. soft city; la centralità geografica, garantita da reti autostradali e ferroviarie che ci pongono naturalmente al centro di un vasto territorio; infine, la presenza di più di 3.500 imprese innovative medio-piccole e grandi.

Come imprenditori, abbiamo proposto quest’area, la soft city che ho appena descritto, al Comune e all’Università, al fine di definire e realizzare progetti che riteniamo importanti per il futuro di Padova. Ne offro alcuni esempi.

Il trasporto pubblico. Il tram serve per andare a lavorare. C’è bisogno di una linea leggera: tra l’altro sono a disposizione dei binari liberi e già realizzati per arrivarci e che finiscono a sud della zona industriale. Servono nuovi tracciati? Questo compete ai tecnici: resta il fatto che occorre subito una linea che colleghi la stazione ferroviaria ai luoghi di lavoro. Vanno poi incentivati seriamente il bike sharing, il car sharing.

La sensoristica. La rivoluzione dei big data offre opportunità straordinarie, per realizzare una sorta di cruscotto per la gestione della città. La rivoluzione digitale permetterà di ottenere feedback in tempo reale dalla città: uno strumento fondamentale per governare le scelte di politica cittadina.

Il teleriscaldamento e il telerinfrescamento, come impianti di distribuzione utilizzabili non soltanto per grandi zone ufficio, ma anche per le abitazioni.

La riqualificazione delle aree degradate, con un ripensamento urbanistico complessivo che comprenda anche gli spazi comuni, strade e piazze, delle aree dove si lavora.

L’inclusione sociale e la sicurezza, che costituiscono aspetti fondamentali per costruire la città innovativa e smart.

Se la competizione globale si realizza tra territori, il nostro proposito è che si crei un ambiente attrattivo dove giungano investimenti, nuove aziende e competenze umane importanti. L’ultima grande azienda a investire in città fu la Tim-Telecom a Padova Est, oramai quindici anni fa. Da allora, stiamo assistendo a un declino, contro il quale noi imprenditori ci stiamo battendo, mettendo passione oltre alla competenza.

Una soluzione concreta per il futuro di Padova
Sono convinto allora che la smart city delle imprese padovane sia una delle risposte – ce ne sono naturalmente anche altre – che la città può darsi per costruire il futuro. Ci sarà un domani se si metterà al centro l’impresa innovativa, che porta con sé occupazione, ricchezza, valore e prospettiva di futuro per tutte le generazioni a venire. Il rischio, altrimenti, è la fuga: il territorio si svuota. Ciò non toglie che le risposte devono essere ugualmente rapide in merito alle strutture della vecchia economia (ospedale, Zip, fiera, teatro congressi, alta velocità), che sono ancora oggetto di aspro dibattito politico. Dibattiti – occorre ricordarlo – vecchi di 20-25 anni. E non si è mosso ancora nulla!

Dobbiamo cioè avere il coraggio di mettere insieme le vecchie infrastrutture del secolo scorso che hanno ancora un’utilità, con le nuove infrastrutture digitali e innovative, che garantiscono di stare al passo dei territori con cui siamo chiamati a concorrere!

Conclusione
Da questo può nascere una Padovacittà aperta ed inclusiva”. Concludo ribadendo che ciò sarà possibile puntando su innovazione e ricerca, sostenendo le imprese giovani e meno giovani, mettendole assieme, per dare un futuro. Tuttavia, è sul grande tema del c.d. digital divide che vorrei offrire un’ultima suggestione.

Il digital divide, nell’accezione comune, riguarda l’infrastruttura della banda larga, senza la quale non siamo collegati alla rete. Come dire, se non ho l’autostrada, le macchine non possono correre. Ma accanto al digital divide infrastrutturale, ce n’è uno ancora più grave, quello culturale che divide le generazioni, i ceti sociali, i ricchi e i poveri. Questa è la grande sfida del nostro tempo. Internet in molti casi non solo ha diviso i ricchi dai poveri, ma i giovani dagli anziani, i colti rispetto a chi ha lasciato la scuola. Per esempio, il figlio di una famiglia di una zona dove non c’è la banda larga e che non si può permettere uno smartphone, ha meno opportunità di chi ha un tablet ed è sempre connesso. Potremmo dire: ha meno occasioni…

Quando nacque trent’anni fa, internet ci venne presentato come un futuro generatore di inclusione. Constatiamo oggi che non è così. Per questo, è necessario unire l’analogico ed il digitale. Non si può separare le due cose: bisogna ripensare i contenuti e il modo di approcciare il digitale.

Basti qui ricordare un dato. In Italia 20-22 milioni di italiani non usano internet; la prima frattura è generazionale: infatti, l’85% degli adolescenti usa la rete tutti i giorni, mentre l’85% dei pensionati non l’ha mai usata. La seconda frattura riguarda chi in questo momento è in cerca di lavoro: il 40% non ha mai usato internet. Un disoccupato senza competenze digitali farà più fatica a trovare lavoro. Per il nostro futuro è fondamentale che il digitale non aumenti le disparità ma che sia inclusivo e moltiplicatore di opportunità per tutti.

Noi abbiamo costituito una fondazione, la ‘Fondazione Comunica’, allo scopo di alfabetizzare i territori ed unire le generazioni. C’è da fare un’attività di volontariato anche rispetto al digitale. È fondamentale. Lo slogan è “Entri analogico ed esci digitale”, puntando proprio ad integrare il mondo analogico con quello digitale. Questa è inclusione sociale, per fare di Padova città aperta ed inclusiva. Concludo citando il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama che in occasione del lancio di una nuova rete innovativa in America ha dichiarato: “Internet non è più un lusso, ma una necessità”.

Quanto detto per Padova, potrebbe valere per tante altre città italiane ed europee, specie tra le persone che hanno passione e amore per le loro città, puntando a creare tra di noi e le istituzioni locali un patto per provare a diffondere idee, concetti e una cultura nuova per le città, per fare sharing, condivisione, per superare il digital divide culturale e costruire, con le forze migliori, la città del domani.

Gianni Potti

#riprendiamoci il futuro